Euripide, un autore rivoluzionario

Poche delle numerose testimonianze antiche sulla vita di Euripide hanno un fondo di verità: perfino il biografo peripatetico Satiro, autore della Vita più antica, fonde storia e leggenda. Euripide nasce tra il 485 e il 480 a.C. a Salamina. Suo padre Mnesarco è un proprietario terriero che si arricchisce grazie al commercio.

Da ragazzo, Euripide si rivela un amante dello sport e della pittura. In seguito, conosce l’insegnamento di Anassagora, Protagora, Prodico e Socrate; non aderisce a nessuna filosofia in particolare, ma resta sempre aperto a tutte le tendenze di quel periodo, quando il pensiero greco comincia ad abbattere le tradizioni religiose, morali, civili e politiche dell’antica Grecia. Diventa anche amico di figure quali Alcibiade e Crizia, legate all’ambiente dei sofisti.

I commediografi lo accusano di misoginia, ma in realtà nessuno come lui mette al centro le donne: analizza in modo approfondito la loro personalità, cogliendone difetti e pregi, fragilità e virtù. Medea e Fedra sono, tra le figure create dal tragediografo, le più forti e al contempo le più deboli. Il loro dramma scaturisce dal contrasto tra passione e ragione. Le donne, che non vivono la vita pubblica con le sue convenzioni e i suoi modelli di comportamento, possono rappresentare meglio degli uomini le emozioni più dirette, i dolori più tormentati, creando un nuovo mondo di sensibilità che dal livello individuale si estende anche a quello sociale e collettivo.

I primi anni della guerra del Peloponneso li trascorre ad Atene, e spesso mette in bocca ai suoi personaggi parole di pace, considerata il bene più desiderabile.

Non tollerando lo scarso successo delle sue tragedie, verso il 408 a.C. si trasferisce presso la corte del sovrano Archelao, in Macedonia, e qui scrive alcuni dei suoi drammi più belli, come le Baccanti e l’Ifigenia in Aulide. Muore a Pella nel 406 a.C., poco prima che terminasse il conflitto tra Atene e Sparta.

Nel IV secolo, la fama delle sue tragedie supera perfino quella delle opere di Eschilo e Sofocle. Invece, come accennato in precedenza, Euripide, autore di ben 92 opere, da vivo vince solo cinque agoni tragici. Questo è dovuto probabilmente alla complessità delle psicologie dei suoi personaggi e alla complessità di un’età di crisi, che proprio le opere di Euripide riflettono; d’altro canto, i gusti tradizionalisti del pubblico non vengono soddisfatti da tragedie così innovative. Le trame, che dapprima sono tradizionali e ruotano attorno alla rovina del protagonista, diventano progressivamente delle trame a intreccio, caratterizzate da colpi di scena, riconoscimenti, situazioni mutevoli. Così la tragedia inizia ad accostarsi alla commedia di costume, che si afferma nel IV secolo.

Il poeta fonda un nuovo teatro, popolato da uomini come tutti gli altri, con i loro desideri, dubbi e angosce: eroi semplici e umani. Essi sono guidati e trascinati da passioni e istinti profondi che non riescono a dominare. Euripide lancia una provocazione agli spettatori, rivelando la crudeltà di fondo della natura umana: gli uomini non sono più giustificati, perché nelle loro scelte non sono influenzati se non da se stessi.

Le principali innovazioni drammaturgiche da lui introdotte sono il prologo espositivo e la monodia. Mentre Eschilo e Sofocle preferiscono un prologo dialogico, che costituisce l’inizio dell’azione drammatica, Euripide sceglie un prologo monologico che svolge una funzione extradrammaturgica: un personaggio, che non sarà presente nel resto della tragedia, narra al pubblico l’antefatto. La monodia è un brano cantato da un attore in metri lirici, che il poeta sviluppa inserendo melodie complesse e patetiche, le quali richiamano il ditirambo contemporaneo.

Una contraddizione evidente nel teatro euripideo riguarda il divino. Da una parte, ritroviamo spesso gli dei nel prologo o nell’esodo delle opere (questo è l’autore che maggiormente ricorre all’espediente del deus ex machina, che consiste nel calare dall’alto sulla scena un dio che risolve in extremis la situazione apparentemente disperata); dall’altra, le divinità sono ridotte al rango di personaggi e non esprimono più nessun valore religioso o morale. Quindi, il poeta è accusato di ateismo poiché fa agire soltanto gli uomini, al cui destino gli dei restano indifferenti.

Il linguaggio che il tragediografo utilizza oltrepassa il limite della tragedia nel senso greco della parola e tende già al teatro moderno. Aristofane definisce i suoi eroi “pezzenti”, persone comuni che adoperano un linguaggio comune, che manifestano un comportamento comune, se non addirittura meschino o misero. Sulla scena c’è spazio per chiunque, non importa la classe a cui appartiene: anzi, spesso i personaggi di condizione sociale non elevata ricoprono ruoli rilevanti ed Euripide non dimentica di dar loro uno spessore psicologico. Questa innovazione gli permette di annullare le distanze tra il mito e la quotidianità.

In 28 anni di carriera poetica, rivoluziona il teatro tragico, sperimentando sempre nuove soluzioni tecniche, musicali e metriche. Il suo stile spazia tra un intenso lirismo e momenti comico-realistici, tra espressioni di abile eloquenza e descrizioni di eccezionale impatto.

Tutti i suoi drammi sono diversi l’uno dall’altro, ma accomunati da una straordinaria capacità di rielaborazione del mito (come osserviamo in Elettra, Eracle e Fenicie), che né Eschilo né Sofocle possiedono: Euripide, infatti, inserisce nei racconti tradizionali episodi di sua invenzione. Il fascino delle sue tragedie deriva anche dalla concezione pessimistica delle condizioni umane: gli uomini non possono essere felici, la giustizia non può trionfare. Mentre il dolore dei personaggi di Sofocle è un dolore eroico, gli eroi di Euripide soffrono e suscitano la nostra pietà, che ci fa immedesimare nella loro vicenda.

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