Paura
Paura.
Ne ho tanta. Tanta.
Premo con forza l’interruttore, quello della mia camera, quello della mia testa, dei miei pensieri, della consapevolezza.
Il buio. Ho bisogno del buio.
No, non è che non ho paura di niente, è che non temo il niente, capisci?
Oggi però la luce non si spegne, il buio non mi trascina via con sé, non mi accoglie nella sua coperta, gode nel vedermi tremante.
Che cosa ho fatto?
Me lo urlo contro mentre le unghie formano sul mio torace un tatuaggio delebile, sul mio cuore ferite destinate a non risanarsi mai più: che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?
È stata colpa mia? Sono stata io?
Il cellulare giace sul tappeto rosso, lo schermo ridotto in frantumi; siamo talmente simili, gli invidio solo la possibilità di riposare.
Vorrei chiudere gli occhi e non scorgere parole fantasma, più vive che mai nella mia testa.
E vorrei avere il coraggio di dire loro che quella non ero io, che era una parte di me, una parte destinata a dissolversi nel nulla.
Vorrei avere il coraggio di dire loro di non confondere il mio quadro generale con quello completo, che un pittore può sbagliare, può sbagliarsi.
Sì, vorrei averne il coraggio.
Ma avere il coraggio di dirlo a chi?
Leggo parole scritte da volti bianchi, parole che mi gettano addosso il desiderio di essere inghiottita dal nulla.
Aveva ragione mio padre.
La chiave della felicità è la consapevolezza della differenza tra il “meglio di niente” e il “niente di meglio”.
Ed io ho commesso l’errore madornale di applicare la proprietà commutativa più nella mia vita che nel campo di battaglia dei numeri.
Quando sei solo non hai preferenze, non ti importa chi sia a colmare il vuoto che prima riempiva la presenza di qualcun altro, ti basta sapere che non avrai più bisogno di parlare con l’eco della tua voce.
Era semplicemente finita, non ridevamo più, ed io non ero più tanto sicura di poter piangere tra le sue braccia o di volerlo ancora fare per mano sua.
Era semplicemente finita, ed io sentivo il bisogno di iniziare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso.
Diverso da lui, da me, da noi.
È stato solo un bacio, lo giuro. Solo uno.
A fior di labbra, uno di quelli che concedi prima di renderti conto dell’errore che stai commettendo, uno di quelli che non valgono nulla, nemmeno i soldi spesi nel rossetto che speravi avrebbe rovinato, o nell’abito che pensavi avrebbe apprezzato.
Uno di quelli che non avevo mai concesso prima.
Un bacio, solo un bacio, nulla di più.
Io quel ragazzo lo conoscevo bene, conoscevo i nomi dei baci che erano venuti prima di me, quelli che erano arrivati immediatamente dopo.
Nella home page dei suoi social spiccava qualche complimento per le sue doti da playboy.
Nella mia solo insulti, qualche minaccia, appellativi che mi facevano sentire sporca, che sapevano mi avrebbero resa la persona descritta da quelle maschere.
Che cosa ho fatto?
Perché tale abisso tra noi due?
Vorrei avere la forza di nuotare fino a quell’altra riva, provare sulla mia pelle quella sensazione di superiorità, ma non ci saranno mai pinne abbastanza potenti per farlo, né ci saranno mai braccioli abbastanza stabili da non permettere all’oceano di inghiottirmi mentre ci provo.
È stata colpa mia? Sono stata io?
Sì.
Sono stata io, è stata colpa mia.
Non dovevo lasciar crescere il mio cuore, avrei dovuto tramutarlo in pietra non appena avessi visto la prima crepa rivestire la sua superficie, destinata ad infrangersi di lì a poco.
Perché più hai il cuore grande, più possibilità hanno di colpirlo in pieno, e adesso ad avere i pugnali dalla parte del manico erano maschere senza forma e colore. Maschere subdole, esperte nell’arte del ferire, abili nel maneggiare parole più dolorose di qualsiasi lama.
Una volta la mia mente aveva indossato uno strano pensiero: chi ti fa male non si rivede, mi ero detta.
Se solo avessi saputo che invece, chi mi avrebbe fatto del male, non si sarebbe proprio visto. Mai.
Le maschere però si riconoscono, sanno bene insieme a chi stanno combattendo la loro battaglia in difesa dell’infelicità, sanno chi è giusto attaccare o proteggere affinché mantenga la sua immunità indiscussa.
Sottolineare la differenza tra uomo e donna, tra ragazzi e ragazze, bambini e bambine, ecco la loro arma.
Allora guardami, guardami negli occhi, puntami quella pistola dritta in testa, i proiettili colmi d’odio, e premi il grilletto, ti prego. Premilo.
Voglio essere come voi, sì, infelice nella mia immunità.
Premi il grilletto, ti prego. Premilo.
Ma insieme alla pistola, punta sui miei occhi i tuoi.
Allora avrai vinto, mi avrai distrutta.
Fino ad allora, tremerò, ma non mi piegherò al vento dell’anonimato.
Premi il grilletto, adesso.
Coraggio, premilo.
Io non ho più paura.
Paola Di Stallo