Muto

In un angolo bugio del mondo, la pioggia cessava di essere pioggia e si mutava in cenere.
La cenere bruciava gli occhi della gente, sminuiva ogni percezione o singolo parere.
Le menti della gente bruciavano insieme al sole.
Gli specchi si frantumavano, i gatti neri si moltiplicavano e nessuno provava ad impedire ogni tipo di sciagura.
Niente colori.
I volti della gente diventavano maschere di cera bianche e ognuno si toglieva la parola.
Parlavano di amore con una lacrima sul volto pallido.
Erano in pochi a trattare questo argomento, gli altri all’ascoltare si chiedevano “cos’è l’amore”?
Cos’è l’amore.
Chi non conosceva non voleva conoscere, non provava il desiderio di superare i limiti o di avere una personalità carica, non ne valeva la pena.
Si affilavano taglierini, il cielo si ingrigiva e i tuoni frastornavano i timpani della gente.
Se si può chiamare ancora gente.
Veniva tolto pure il diritto di ascoltare.
Si udivano urla in ogni dove, per chi aveva ancora il coraggio di emettere suoni, che in questo caso erano richieste di aiuto.
Le rose appassivano, il cioccolato amaro dei baci perugina di scioglieva, gli uccellini non cinguettavano più.
Non giravano pagliacci col naso rosso per strappare un sorriso ai bambini, solo mimi al quanto depressi.
I neonati avevano paura di piangere.
Le donne non venivano considerate donne ma animali da circo.
Subivano ogni tipo di violenza e gli veniva esplicitamente chiesto di fare silenzio.
Erano sottomesse da chi veniva ritenuto più forte, più capace o più utile: l’uomo.
Avevano paura di chiudere gli occhi per dormire.
Tenevano sempre gli occhi aperti,non sbattevano ciglio,avrebbero fatto troppo rumore.
Mento all’ingiù e capo chinato.
Ribellarsi era disumano, pensavano ma non fiatavano.
Non erano pensieri complessi, erano netti e umili. Non avevano la capacità i di pensare profondamente, nessuno glielo aveva insegnato. Stavano zitte, stavano zitte da così tanto che si erano scordate anche come si parla.
Era diventata quotidianità.
Non uscivano di casa.
Solitamente camminavano a piedi scalzi per casa, con i capelli oliosi e una vestaglia strappata.
Una linea retta al posto del sorriso,un paio di occhiaie e i denti giallastri.
Osavano alzare lo sguardo per fissare il proprio ritratto su quello specchio rotto.
Un occhio ridotto al porpora e le nocche insanguinate.
Una lacrima silenziosa incoronava il loro volto, anche essa gli veniva rimproverata.
Non potevano farsi belle.
Non potevano dipingere di rosso le proprie labbra.
Non potevano valorizzare il proprio sguardo, tanto meno il proprio fisico.
Non potevano valorizzare sè stesse.
La gente sapeva, ma non fiatava.
La gente provava pena.
“Poverina” dicevano.
E nessuno mai che facesse qualcosa per aiutarla.
Già, poverina.
Guardavano indegni.
Commentavano schifando l’uomo che l’aveva ridotta così.
Ma non andavano oltre, non reagivano.
Nei casi migliori.
Nei casi peggiori,invece, la gente non capiva.
“Che brutta” dicevano.
“Provo vergogna per lei” ripetevano.
Commentavano con cattiveria senza pensare a cosa ci fosse oltre quel brutto aspetto.
I brutti erano loro.
Erano brutte persone che non usufruivano della propria ragione.
Ebbene sì, c’era chi schifava e chi si preoccupava.
Ma nessuno agiva.
“È un problema suo” pensavano tutti.
Avevano ragione, era un problema suo.
Magari provavano pietà e si sentivano buone persone.
Ma erano brutti anche loro.
Perchè non sapevano che tutti siamo quello che facciamo.
E loro non avevano fatto niente.

 

Giulia Masso

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