Se questi muri potessero parlare, chissà quante cose avrebbero da dire

Quella del 27 aprile è stata una giornata intensa, scandita da un susseguirsi frenetico di emozioni, una di quelle giornate che restano scolpite nella mente e nel cuore. Sveglia alle 4:45, colazione abbondante in hotel, partenza in autobus verso Auschwitz alle 6:00,arrivo alle 7:00, la preoccupazione di non poter entrare, la lunga attesa in compagnia di persone meravigliose, il freddo e poi finalmente, verso le 10:35, l’ingresso. Sapevo già cosa avrei trovato svoltando l’angolo: un grande cancello sormontato dalla nota scritta  “Arbeit macht frei”(“il lavoro rende liberi”). Sapevo cosa avrei trovato, ma non potevo immaginare che un brivido di terrore così acuto mi avrebbe attraversato, giungendo fin dentro le ossa. Eppure l’immagine che mi si profilava dinanzi non aveva i toni cupi e sinistri che ci si potrebbe immaginare. Gli alberi e i fiori risplendevano radiosi sotto la luce del sole di quella mattinata di fine aprile; ogni componente contribuiva a creare un ordine armonico, persino le foglie, i ciottoli dei viali sembravano occupare un posto prestabilito, da cui non potevano essere rimossi. Era un’ atmosfera ricca di colore, inadatta ad avvolgere quel luogo che tanto dolore aveva vissuto. Varcando la soglia, ogni passo lungo le stradicciole che separano i numerosi edifici di mattoni rossastri, è stato inevitabilmente accompagnato da una sensazione di disagio e grande commozione. Fino a quel momento Auschwitz mi era stato presentato solo dalle immagini dei film o dalle parole stampate sui libri di storia, motivo per cui ne avevo sempre sentito, giustamente, un certo distacco emotivo, pur riconoscendo le indicibili atrocità che in quei luoghi l’essere umano avesse mai compiuto. Ma percorrere sulle mie gambe quei sentieri  che circa settant’anni fa venivano a loro volta attraversati da uomini, donne e bambini, colpevoli unicamente di apparire il facile bersaglio contro cui gettare le responsabilità della situazione catastrofica in cui versava la Germania del dopoguerra, ha suscitato in me un effetto tutto nuovo. Mi sono sentita piccola, assolutamente incapace di comprendere a fondo il perché di tutta quella malvagità, tormentata per aver poi capito che in fondo anche io, da essere umano, partecipo di quella malvagità che è insita nell’uomo; ho sentito crearsi in me un vuoto, colmato alla fine, ma solo in parte, dalla riflessione che l’iter all’interno del campo di concentramento ha inevitabilmente prodotto attraverso la visione drammatica di piccole scarpette, abiti logori, grovigli di occhiali, stoviglie di ogni genere, custoditi dietro numerose teche di vetro, di 7000 kg di capelli, strappati con violenza e appartenuti a chissà chi e poi ancora di quei volti privi di sguardo e svuotati della loro identità, smunti, emaciati, pallidi, tutti uguali, incorniciati e apposti lungo i corridoi, e infine la visione delle prigioni sotterranee, cupe e soffocanti, del Muro della Morte, circondato da commemorative composizioni floreali, delle camere a gas e dei forni crematori di Auschwitz-Birkenau ormai distrutti.

Lungo il tragitto mi sono affacciata per caso a una delle tante finestre di uno dei tanti edifici, tentando di immaginare anche solo lontanamente cosa provassero quelle anime disgraziate che da lì, come me, avevano forse scorto di sfuggita un raggio di sole, le fronde degli alberi, i prati verdi, ma è chiaro che ciò che vedevo io in quel momento era deformato dalla mia fortunata condizione di serenità quotidiana. Per me quel filo spinato era solo filo spinato. E allora non mi è rimasto altro che un abisso ancor più profondo e mille domande che non otterranno risposta.

<< Se questi muri potessero parlare, chissà quante cose avrebbero da dire>>.

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